20 Gen Il tratto del Caso
Fondation Européenne pour la Psychanalyse
Clinica contemporanea e formazione dell’analista
Ecole Normale Supérieure, 45 rue d’Ulm Paris, 16 octobre 2010
Bernard Bremond e Claude Dumézil firmano questo libro che, nella sua nuova versione, esordisce con delle questioni poste a Claude Dumézil, da Pierre Leroy e Radjou Soundaramourty.
Questo libro, anche se si tratta di una seconda edizione accresciuta, conserva la virtù molto rara di apportare la testimonianza di un’esperienza singolare, tramite gli stessi attori che hanno inaugurato un dispositivo di lavoro analitico. Si tratta di un’invenzione che parte da una frase tratta da Claude Dumézil dalla quarta di copertina della prima edizione di Scilicet, del resto sparita nelle edizioni successive, dove Lacan spiega perché gli articoli di questa rivista non sono firmati: “Meno affettazione di autorità. Più sicurezza per invocare il personale nella pratica, e segnatamente il tratto del caso”.
Il tratto del caso è diventato subito il nome di questo dispositivo e fa da sottotitolo a questo libro. Devo confidare che questo sottotitolo, nella mia memoria, aveva rimpiazzato il titolo del libro; ed è solamente riprendendo la lettura di certi capitoli che mi è ritornato in primo piano il titolo: L’invenzione dello psicanalista, titolo che a quel punto, mi è sembrato, a posteriori per me, riassumere in sintesi l’argomento di questo libro.
Si tratta di un’invenzione che comporta il rischio di esporsi nella pratica di un seminario proposto da Claude Dumézil nel 1983, seminario che ha funzionato con un ritmo bimensile per due anni, dove sono state create, “le condizioni della sorpresa attorno a una enunciazione relativa a una pratica d’analista”.
In effetti, non potrebbe esserci sorpresa che nell’enunciazione, che riguarda il soggetto nel suo atto, vale a dire il soggetto che non ha nessun supporto se non nel tratto.
Ci si dice che ciascuno, esponendo a turno, scopriva un po’ di ciò che gli resisteva puntualmente, nell’esercizio della sua funzione di analista. È in questo senso che era reso esplicito il Tratto del Caso che in Lacan rinvia al “personale nella pratica”.
Premesso che i partecipanti a questo seminario avevano già attraversato l’esperienza del controllo individuale, ciò che era proposto con l’esperienza di un seminario clinico all’insegna del “tratto del caso” si distingueva da ogni altro lavoro clinico collettivo. Invocando la formula di Lacan secondo la quale l’analista esiste da una mancanza, ci si fa rimarcare che il gruppo come tale non è propizio a fare esistere “dell’analista” nella misura in cui il numero di partecipanti tende a colmare la mancanza di ciascuno.
Resta tuttavia che è il gruppo quello che fa funzionare il dispositivo del tratto del caso, ma che è proprio qui la posta in gioco, quella di volere che il gruppo si definisca piuttosto negativamente in rapporto ad altri gruppi.
Come testimonia Bernard Tauber, i partecipanti, in partenza, a parte il loro interesse per la clinica, non sapevano in che cosa poteva consistere il loro lavoro nel gruppo. Era semplicemente evidente che non si trattava di un gruppo di controllo, con un controllore patentato, né di un gruppo di autocontrollo, dove ciascuno è in posizione simmetrica all’altro, gruppo che lascia spesso il posto all’interpretazione selvaggia tra praticanti al debutto, né di una presentazione di caso ben congegnata, dove gli effetti d’isterizzazione sono importanti. Dunque il tratto del caso ci è dato come un dispositivo che opera nella “finzione”, fiction (artifizio, invenzione), allo stesso titolo della regola fondamentale nella cura.
Il momento operativo della “finzione” è fondamentale in questo dispositivo perché il tratto del caso non è solo il tratto del paziente, è pure il tratto dell’analista, giacché il transfert si costituisce tra questi due poli, ed è tra questi due poli che il transfert viene a mobilitare l’inconscio.
Nel momento in cui, direi, una parola fa da blocco nel discorso di chi sta rapportando in posizione di analista, è allora che l’invenzione può permettere di fare tratto, giunzione con la parola del paziente.
Il registro della “finzione”, ci dice Bernand Bremond, gioca sul versante della negatività, dove si scava un vuoto che renderà possibile qualcosa come una invenzione o come una reinvenzione. La “finzione”, fiction (artifizio, invenzione), si giudica dal fatto che essa permette di trasformare, è una scrittura… Differentemente dal controllo in cui è un’empasse della pratica che serve come punto di partenza per l’esposizione del caso, è una “finzione” sotto forma d’ipotesi che governa il racconto nel dispositivo del tratto del caso. Di quale ipotesi si tratta? Quella in cui s’inscrive chi prende la parola per esporre un frammento della sua pratica: il materiale che esporrà custodisce un tratto che lo riguarda, lui tanto quanto il soggetto al quale egli farà posto nel racconto. È in questo senso che la “finzione” è istituente, del soggetto (analista) come pure dell’analisi.
Un dispositivo è istituente (ci dice ancora Claude Dumézil) quando permette che si produca, per uno dei protagonisti, una modifica della sua posizione enunciativa tramite una levata della censura o della rimozione, una parola o una formazione dell’inconscio che fa interpretazione, la sorpresa di un effetto di “soggetto”. In effetti, come Myriam Ziri ci precisa, nella pratica del Tratto del Caso è la soggettività che è messa in esercizio grazie alla presenza del suo resto non risolto.
Si può dedurre che il tratto celato finalmente permette la messa in atto della “realtà” dell’inconscio.
Se, come dice Lacan nel Seminario XI, “la presenza dell’analista è una formazione dell’inconscio”, allora questo punto d’arresto, talvolta di fronte a un punto cieco, di cui ci si parla in questo libro, avrebbe potuto essere, mi sembra, il velo che, a quel momento nella cura, non aveva permesso ci fosse presenza d’analista, vale a dire, per renderlo altrimenti: un’interpretazione, come nuova formazione dell’inconscio, non aveva trovato, nella cura, il suo posto vuoto per prodursi.
Occorreva un altro spazio, dove pure è in gioco il transfert, in cui, ci dice Danielle Treton, ciascuno si espone alla sorpresa di sentirsi nominare un tratto della propria struttura, enunciando un tratto della propria pratica, oppure alla sorpresa di sentire, nell’enunciato d’un altro analista, un punto d’arresto rimasto per quest’analista punto cieco, mentre è chiarito dal punto di vista clinico e teorico da colui che ascolta.
È stata necessaria questa chance, direi, di un dispositivo, perché, vivendo ciascuno in diretta, per così dire l’escamotage di una possibile formazione dell’inconscio, in questo vuoto beante di un atto mancato, potesse finalmente aver luogo l’invenzione dell’analista, genitivo oggettivo.
In questo senso, ci dice Claude Dumézil, chi parla, chi sostiene questo “lasciar venire”, tramuta quelli che lo ascoltano e parleranno a loro volta di un tratto della propria pratica di analisti, in altrettanti passanti quanti sono quelli che ascoltano, chi parla dunque funziona come passatore (passeur) potenziale del rapporto più intimo di ciascuno con la sua pratica.
Per finire la mia introduzione mi sembra che questa nuova edizione presenta, in rapporto alla vecchia, un passo in più che è il rischio di una proposta teorica fatta dagli autori.
La metafora paterna, intaccata dall’uno, gli ha permesso di trovare un punto di origine e di ancoraggio, nella struttura psichica, di un desiderio d’analista in risposta a un traumatismo e a una questione.
Questo punto d’origine del desiderio d’analista, aggiunge Bernard Bremond, si rivela prossimo a ciò che poteva ed era sul punto di essere all’origine di una psicosi, o che poteva costituire un punto di ancoraggio di una perversione.
Una forclusione parziale del nome del padre come puro significante per l’altro, nella cura, si è rivelata, nell’ambito delle sedute del Tratto del Caso, all’origine del desiderio dell’analista, alla condizione di prendere il rischio, come ci dice Claude Dumézil, di partire da un materiale molto personale, per presentare certe osservazioni sui contorni di un desiderio d’analista.
Gli elementi qui proposti, da riconoscere all’origine del desiderio d’analista, elementi senza i quali difficilmente si potrebbe operare la disgiunzione radicale tra libido e desiderio, grazie alla quale il desiderio d’analista funziona, sarebbero: una maglia particolare del significante del Nome del Padre nella catena significante, la messa in questione del sesso tramite il complesso di castrazione, lo svelamento della forclusione dal linguaggio del significante che vi fa difetto, La (barrato) donna. Cosa che non esclude la presa del soggetto nell’ordine significante, dunque la realtà strutturale di questo: “Non c’è rapporto sessuale”.
Ciò che trovo interessante in questo libro, è la proposizione di un elemento psicopatologico, che viene alla luce grazie a questa clinica dello psicanalista che è il dispositivo del Tratto del Caso, elemento che è trovato alla radice del desiderio d’analista, perché mi sembra che ci riporti sulla linea dell’insegnamento di Freud e di Lacan.
Vorrei terminare con le parole di Pierre Leroy:
Questo luogo al quale ci s’indirizza nel dispositivo non lo chiamerei “seminario”; preferisco semplicemente “Tratto del Caso”, perché, se è insegnante, non è tuttavia un insegnamento, come non vi s’indirizza a un controllore, né al proprio analista, ma piuttosto a degli analisti, “alcuni altri”.
Si vede allora come, qui come in altri luoghi di questo libro, è evocata la passe ma per precisare, come lo fa Michel Gaugain, che se la passe interroga il passaggio da analizzante ad analista nella cura, il Tratto del Caso interrogherebbe i momenti della pratica dell’analista in cui egli incontra la propria struttura di analizzante.