La battuta spiritosa

La battuta spiritosa

Venerdì 13 dicembre 2013

Conferenza di Luigi BURZOTTA

La battuta spiritosa

Drazien: il Dott. Burzotta ha scelto di parlare del soggetto. È chiaro che per ogni formazione dell’inconscio c’è il soggetto al centro. Non si può dire che, senza il soggetto, non ci sia inconscio, ma certamente non è l’inconscio che noi consideriamo rimosso. C’è un altro tipo d’inconscio, come s’è detto, poco fa, che si legge a cielo aperto; ma comunque non è di questo, mi pare, che lei vuole parlare ma del rapporto tra soggetto e desiderio che caratterizza l’inconscio freudiano: il soggetto è dunque l’argomento che sarà trattato questa sera.

Burzotta: Sì, in ciò che dirò, si tratta del soggetto, che è propriamente in causa nel motto di spirito, che è l’argomento centrale delle prime sette lezioni di questo seminario V, “Le formazioni dell’inconscio” di J. Lacan, e, per entrare nel vivo dell’argomento, vorrei cominciare con un motto di spirito che mi coinvolge personalmente, perché è qualcosa che ho prodotto io stesso.

Qualche giorno dopo aver parlato con la dottoressa Drazien sulla possibilità di questo mio intervento, mi è capitato di incappare in una formazione dell’inconscio che, come tale, mi coinvolge come soggetto.

Sono al supermercato da solo, con l’incarico di acquistare qualcosa, che era sfuggita alla spesa fatta il giorno prima. Quando giungo davanti alla cassa per pagare, la ragazza mi chiede: “Ha la tessera?”. Un poco irritato dalla domanda, io dico: “Ascolti, sono disintesserato”.

Ecco un motto di spirito breve e fulmineo, in cui apparentemente non c’è la terza persona, perché voi sapete che nel motto di spirito Freud esige la presenza di una terza persona, che autentichi l’arguzia del messaggio che, altrimenti, resta mancata, difettosa. La terza persona, con la sua convalida, promuove il messaggio autenticandolo come motto di spirito. Parleremo dell’importanza della terza persona, per dire che, a volte, non è necessario che sia in carne ed ossa: la terza persona si costruisce.

Drazien: Allora perché dice che non c’era una terza persona?

Burzotta: Perché l’ho costruita sul momento, e la costruzione sta proprio nell’invocazione che faccio inizialmente. “Ascolti”, è il modo per far sì che ci sia una terza persona, un’invocazione all’Altro, che è diversa da me e da chi mi sta davanti, l’Altro è il terzo che esula dalle due persone che si confrontano in quel momento, è un Altro. Questo, “Ascolti”, corrisponde pressappoco all’invocazione, “Mio caro maestro”, rivolta da Frederich Souliér allo scrittore Heinrich Heine, quando, indicando una persona, che era ritenuto in quel momento un personaggio ricco e potente, subito attorniata dalla gente che andava a ossequiarlo, egli dice: “Vede come oggi si adora il vitello d’oro?”. Cominciare con “Ascolti” è come dire: “Vede mio caro maestro!”, un’invocazione per costruire il grande Altro. Il grande Altro è costruito istantaneamente, proprio per convalidare un motto di spirito. Vedremo che nel caso di Soulier e di Heine questo grande Altro serve per salire di gradino, compiere un successivo passaggio, perché Heine dal canto suo gli risponde: “Ma questo mi sembra troppo vecchio!”. È qui il motto di spirito, non che già non fosse un motto di spirito il primo, ma era un po’ fiacco per Heine.  Qui, avverte Lacan, abbiamo una concatenazione nel coinvolgimento perché il grande Altro è come se diventasse un altro soggetto, e ciò spiega probabilmente perché, nel Seminario V di cui ci occupiamo, Lacan si attarda un poco a parlare dell’intersoggettività, benché sia vero il contrario. Qualche anno dopo, quando siamo già arrivati al seminario sul Transfert, a qualcuno che gli avrebbe rimproverato di aver parlato dell’intersoggettività a quell’epoca lì: è vero dice, io parlavo dell’intersoggettività ma per andare oltre. Se si legge attentamente questo seminario V, si vede che Lacan va oltre l’intersoggettività.

Bene, ora comincio subito a costruire il grafo, un supporto topologico su cui Lacan appoggia man mano tutto il suo ragionamento e che fa crescere di pari passo con il suo discorso, sicché io stesso devo darvene subito il primo abbozzo, prima di passare ad analizzare alcuni passi di un motto di spirito centrale, per dare ragione della sopraelevazione che dopo vi faremo.

 

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Il grafo nella sua forma elementare si costruisce in questo modo, cominciando cioè a tracciare una parabola in senso antiorario; anche se non avessimo la lavagna, potremmo pensare a rappresentarlo come un mortaretto che esplode e poi fa una curva e ricade. Disegniamo questo mortaretto giacché abbiamo la lavagna.

Lacan lo rappresenta così, con un punto di partenza a forma di D Delta, dal cui apice sorge qualcosa, ma cosa? C’è il sorgere del bisogno. Nel bambino, prima di pronunciare una parola c’è questo “ah!”, partendo dal quale, immaginate che qui si disegni questa curva, per tracciare una traiettoria, una parabola che parte dal punto D e termina in un altro, discosto dal primo.

Con il bisogno, considerato che parlavamo, poco fa, del soggetto, non possiamo dire che ci sia ancora soggetto, qui siamo al momento dell’intenzione, possiamo chiamarlo un soggetto intenzionale.

Perché ci sia soggetto occorre che questo bisogno attraversi qualcosa d’altro, un altro vettore. Questo secondo vettore che, in senso orario, attraversa il primo, Lacan ci dice che è il vettore della catena significante, che possiamo dire culmini, proprio nell’incrocio del “soggetto a venire” con il grande Altro.

Qui abbiamo il punto in cui la catena significante incrocia il grande Altro. Lacan un po’ timidamente lo chiama luogo del codice, che contrassegna con una lettera A maiuscola, però in seguito va sviluppando questo concetto e lo chiamerà tesoro dei significanti. Perché lo chiamerà in questo modo? Se noi consideriamo un bambino nel rapporto con la madre, Lacan a proposito è preciso perché dice: “Questo tesoro non è qualcosa da considerare infinito, è limitato”, è il tesoro posseduto dalla madre, è quello che è disponibile.

Con il secondo vettore che incrocia il primo, è figurata la catena dei significanti. Ora, la questione è questa, questi due vettori avrebbero una temporalità, giacché io ho disegnato prima uno e poi l’altro, ma non è così che succede, perché qui siamo di fronte a un tempo logico, nel senso che c’è una contemporaneità. Perché nel momento in cui questo primo tratto giunge a questo punto d’incrocio, c’è l’altro tratto che raggiunge quest’altro punto, quindi c’è simultaneità tra un primo tempo e un secondo, e, simultaneamente, c’è un terzo tempo ancora di ratifica, con il motto di spirito che giunge qua nel messaggio. Il messaggio o la metafora, qui Lacan insiste sul concetto della metafora perché secondo lui il messaggio è una metafora; vedremo poi di cosa si tratta.

Se vi parlavo di un primo tempo, di un secondo e di un terzo tempo, concernenti la prima cellula a un solo piano del grafo, è perché dovevo articolare che, quando noi facciamo un motto di spirito, occorre la costituzione dell’Altro come terzo, perché seppure il processo avvenga simultaneamente, è necessaria la costituzione del grande Altro per autenticare il motto di spirito.

Quest’altro schizzo del grafo da me eseguito nel mio studio e di cui ho fatto delle copie per voi, è la prima cellula, lo schema elementare del bisogno, che deve passare attraverso la catena dei significanti perché si trasformi in domanda.

Restiamo ancora al primo livello, col disegno del grafo che ho portato: si tratta di qualcosa che ho preparato, partendo dal modellino, dove Lacan illustra, elaborandolo a più riprese nel Seminario V, lo schema della formazione del motto di spirito.

Voi vi chiederete perché ho eseguito un disegno, alla lavagna, se ne avevo uno già pronto e, prima di coprirlo con quello nuovo, preciso che ho costruito davanti a voi la cellula elementare del grafo alla lavagna, perché lo dovremo sviluppare, perché ci torneremo per fare una sopraelevazione e passare al secondo piano; ma prima, volevo illustrare in che modo il bisogno si trasforma in domanda attraversando la catena dei significanti. Avrete già sentito tante volte che il bambino deve fare questo percorso, un cammino dove perde qualche cosa, perché passando attraverso i significanti della madre, non è più quello che era prima; egli è il bisogno, più i significanti e questo fa sì che ci sia un resto. Ciò che resta è qualcosa che ha a che fare con il desiderio. Questo già nella prima cellula che ho costruito davanti a voi.

Adesso riprendo la questione con l’ausilio del disegno da me preparato nel mio studio: adoperando tre colori e aggiungendo delle didascalie, l’ho elaborato e completato, sulla scorta dei modellini che utilizza Lacan per illustrare il motto di spirito di Heinrich Heine.

La dott.ssa Drazien parlava prima del soggetto, ed è molto pertinente ciò che diceva, perché ciò che vi voglio dimostrare stasera è proprio questo, e cioè, che nelle formazioni dell’inconscio, motto di spirito compreso, è il soggetto che è in questione, perché può sembrare che nel motto di spirito l’autore sia esente dall’inconscio quanto più si è spiritosi, invece tanto più uno è spiritoso, tanto più è in gioco l’inconscio, dunque è in gioco come soggetto per la costruzione del motto di spirito.

Una volta ho scritto un’opera drammaturgica, Rossetto, andata sulla scena nel 1969, dove c’era un personaggio che, oggi posso dirlo, era esente dall’inconscio, non-dupe, così come un mio paziente che una volta mi disse: “Non si aspetti mai che io faccia un lapsus”. Diciamo che questo paziente era un uomo ben fornito: istruzione universitaria, formazione medica elevata anche dal punto di vista professionale, parlava un italiano perfetto, non s’inciampava mai, e non è stato possibile toglierlo da questa posizione.

Allo stesso modo il personaggio della mia opera drammaturgica dice, per quanto io, all’epoca in cui la scrivevo, ancora fossi all’esordio delle mie letture freudiane, tuttavia questo personaggio, sicuro di sé, dice così: “Non tradirsi mai per il gusto di una battuta”. Perché nel momento che fai una battuta di spirito, sei tu in gioco, sei tu che ti tradisci, è il soggetto dell’inconscio che si manifesta.

Allora, è proprio il soggetto in causa quello che voglio rendere evidente in questa chiacchierata e dimostrarvi, che, del resto, è ciò che fa sia Freud sia Lacan.

Ho portato qui il mio vademecum di quando ero molto giovane, delle mie letture freudiane: questa pubblicazione del motto di spirito, che risale a molti anni fa, ai tempi in cui leggevo Freud per la prima volta, quando non c’era tutta la sua opera, o meglio c’era, però in tedesco ma io, non conoscendo la lingua di Freud, aspettavo che venissero poco a poco le traduzioni in italiano, e quindi questa è la prima pubblicazione del motto di spirito, uscita in Italia.

In quest’opera, voglio dire, c’è questo richiamo anche da parte di Freud, al fatto che dietro a Hirsch Hyacinth abbiamo la persona stessa di Heine, ecco, leggiamo: “… in non pochi passi si ha l’impressione che per bocca di Hirsch Hyacinth parli il poeta stesso come dietro una tenue maschera”.

Dove ha incontrato il poeta Heine questo personaggio? Forse bisogna che io dica subito che Freud pesca la maggior parte dei motti di spirito che analizza, proprio dal libro di Heine, che è Impressioni di viaggio, e che “Bagni di Lucca”, è la parte italiana dell’opera. È qui che Heine incontra questo personaggio e Freud dice che è veramente molto spassoso, interessante e probabilmente, tanto più lo è quanto più dietro a questo Hirsch Hyacinth c’è il poeta Heine, è qui la questione. Vedete come il soggetto sfugge, è inafferrabile, e se noi lo vogliamo rintracciare nel grafo, è in tutto il sistema, non è collocabile da qualche parte del grafo, ma nell’insieme.

Allora, questo Hirsch Hyacinth chi era? Era un personaggio che Heine ci dice di avere incontrato ai Bagni di Lucca, però non possiamo giurare che sia una persona reale o che non sia tutta un’invenzione dello stesso Heine. È un personaggio straordinario, perché cosa fa di professione? Era callista e ricevitore del lotto, e aveva come tale delle frequentazioni importanti, per esempio i Rothschild. Lo stesso Nathan il Grande, che sarebbe il banchiere che finanziava i sovrani di tutta l’Europa, era il paziente al quale Hirsch Hyacinth “grattava” i calli. Allora raccontava Hirsch-Hyacinth al nostro poeta Heine, “Io però sono sicuro che in quel momento ne determinassi l’umore: mentre io grattavo i suoi calli, lui pensava quanto avrebbe fatto pagare d’interessi dei prestiti a questo o a quel sovrano e quando io andavo troppo a fondo con la grattata, e gli creavo un fastidio ai piedi, questo lo avrebbe pagato il re che in quel momento era nella testa di Nathan il Grande”. Questo era il personaggio che era in colloquio con il nostro poeta Heine.

A un certo momento di una conversazione, in cui l’uno s’intratteneva con l’altro, è venuto fuori questo motto di spirito di cui ci occuperemo. Egli narrava che una volta era stato ricevuto da Salomon Rothschild e che questo, accogliendolo, gli aveva amabilmente detto: “Ma no, non entrate dalla cucina, anch’io sono ricevitore del lotto, non è giusto che tu sia ricevuto in cucina”. È a quel punto che Hirsch- Hyacinth avrebbe detto: “Sono stato trattato con modi del tutto familionari”.

Familionari” è una battuta di spirito, che dal punto di vista tecnico formale, somiglia un pochino alla battuta di spirito che mi riguarda personalmente, dove io dicevo un po’ toccato alla cassiera: “Ascolti, sono disintesserato”. Evidentemente io ero infastidito dalla richiesta della tessera, si capisce. Se voi ci pensate, c’è la sovrapposizione di “interessato” e “tesserato”, per ottenere disintesserato, costruito come “disinteressato”. Questa modalità esplicativa Freud la chiama riduzione. Freud è veramente una miniera, e si rivela tale a ogni lettura che se ne faccia, che apparentemente si presenta semplice ma diviene allo stesso tempo complessa, se si segue il gioco della lettera.

Freud parla di riduzione per dire che c’è un piano tecnico importante nella costruzione del motto di spirito, un livello che chiamiamo formale, in cui ciò che è in gioco sono le parole, cioè i significanti.

È proprio in questa epoca che Lacan rilegge Freud alla lettera, appunto nell’aspetto formale dei significanti, nel gioco, nella loro combinatoria, dove opera la metafora e la metonimia: quest’ultima consiste nella successione e concatenazione dei significanti mentre la metafora sta nella sostituzione di un significante con un altro.

Lacan aggiunge che non può esserci metafora, fuori dalla metonimia. Freud nel suo motto di spirito li chiama condensazione e spostamento, ma sono la stessa identica cosa.

Nelle prime sette lezioni del Seminario Le formazioni dell’inconscio, tornandoci più volte, Lacan illustra con l’ausilio topologico del grafo i tre tempi della scomposizione dei significanti e della composizione del motto familionari. Lungo i primi cinque capitoli, dove ci sono tante cose, e da cui naturalmente io ho cercato di estrarre quello che poteva servirci per la chiacchierata di questa sera, Lacan non presenta subito il grafo, come lo riproduco in questo foglio, ma lo dà nella forma compiuta soltanto in un secondo momento.

Nel modellino del grafo qui riportato, in nero, ho disegnato, in rosso e in verde tutto ciò che concerne i movimenti di andata e ritorno di due circuiti. Il rosso si riferisce alle vicende della catena significante, il verde invece ci parla di quello che accade da quest’altra parte. Lacan colloca una linea intermedia, dove c’è quello che, per ora, è designato “je”, da un lato, e, dall’altro, “i(a)”, che sarebbe l’oggetto metonimico. In questo modellino siamo ancora all’inizio della costruzione del grafo, agli inizi dell’elaborazione di Lacan, quindi troviamo l’oggetto “i(a)” che per il momento significa l’oggetto metonimico sulla linea detta metonimica.

Bene, vedete che sulla linea detta metonimica c’è scritto “milionario, perché designa l’oggetto metonimico. Potete osservare da una parte e dall’altra del grafo un andirivieni dei vettori; seguiamone allora il tragitto. Lacan dice che se da una parte, io come costruttore del motto di spirito, come esecutore, come autore, devo prima costituire il grande Altro in a (alfa), è per una ragione semplicissima, perché, in origine, ogni discorso parte dall’Altro, che fa sì che da parte del soggetto ci sia l’invocazione.

 

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Nella costruzione del motto di spirito, seguendo la freccia verde discendente nel grafo, il messaggio parte dall’Altro e va verso il “je” situato in b (beta): è come se l’Altro, in qualche misura mettesse il soggetto in posizione di fare un’invocazione. L’invocazione è di Hirsch Hyacinth che comincia così: “Com’è vero che Dio mi deve ogni bene…”, per proseguire, in un secondo momento, con la seconda parte della frase: “… io ero in atteggiamento familiare con Salomon Roschild”, nel tragitto invertito della linea verde che dal “je” in b (beta) torna verso il grande Altro in a, per poi riprendere nel terzo tempo la corsa da qui, dal grande Altro, solo con il significante “familiari”, verso il messaggio in g (gamma).

Contemporaneamente, ci dice Lacan, avviene qualcosa sulla linea dei significanti, che qui è disegnata in rosso. Nel primo tempo c’è solo un abbozzo del messaggio. Da dove viene quest’abbozzo del messaggio? Evidentemente questo messaggio è preparato, come ho detto, nel rapporto che si era stabilito tra il poeta Hein e Hirsch-Hyacinth, dall’atmosfera che si era creata, di tutti quei significanti che erano già all’opera, legati al denaro; tutto era già nell’intesa che si era stabilita tra i due: nel racconto del suo rapporto con Nathan il Grande e di questo con i Re, si comincia a creare l’aura del denaro molto abbondante, della grande quantità di denaro. Con l’aiuto topologico di questo grafo Lacan illustra che nella parte sinistra del grafo, correlativo al secondo tempo della parte destra, c’è un secondo tempo discendente dove è trovato l’oggetto metonimico, nella linea del “mio milionario”. Qui in b’ (beta 1) è pescata la parola, “milionari”, elemento che torna indietro col vettore qui in rosso e va, verso il messaggio in g, nel terzo tempo, correlativo al terzo tempo di “familiari”, che dal grande Altro in a scende verso il messaggio in g. Qui abbiamo finalmente la composizione metaforica del messaggio con la sovrapposizione di queste due parole, “familiari” e “milionari”, dalla cui scomposizione e ricomposizione si ottiene la costruzione del motto di spirito.

Il grafo, che serve a illustrare la composizione metaforica, esige in partenza che la catena significante sia scomponibile e ricomponibile in tutti modi.

Più tardi Lacan, definendo le formazioni dell’inconscio come un sapere che s’inventa, ci parlerà di un processo combinatorio di elementi che chiamerà scrittura, ma per il momento lo illustra così, con questa scomposizione delle frasi, come se queste si frantumassero negli elementi significanti, per ricomporsi con una parola “nuova”, che in questo caso è la metafora, familionario, nella frase: “Sono stato ricevuto con modi familionari”.

Solo nel terzo tempo dunque, l’oggetto metonimico, come parte frammentata, arriva nel punto g (gamma), nel luogo del messaggio, insieme con un’altra parte frammentata, per compiere un rimpasto in cui nasce questa parola mostro, familionari, che da qui può tornare all’Altro in a, per la ratifica del motto di spirito, dove è finalmente convalidato.

Detto questo, per quanto riguarda familionari, torno al mio disegno precedente, per tentare di completarlo.

Abbozzando inizialmente questa prima costruzione alla lavagna, vi volevo anche preparare per il confronto del motto di spirito, da una parte, con la dimenticanza del nome proprio, dall’altra, dove la metafora non è riuscita, nel senso che nella dimenticanza c’è rimozione, c’è elisione, dunque assenza di ratifica da parte di un terzo.

L’articolo sulla dimenticanza del nome proprio è ricavato, non più dal saggio sul motto di spirito ma dall’altra opera che Lacan ritiene una delle fondamentali di Freud. Sapete che Lacan ritiene come opere fondamentali di Freud ilMotto di spirito, l’Interpretazione dei sogni e la Psicopatologia della vita quotidiana.  La dimenticanza del nome proprio si trova in Psicopatologia della vita quotidiana.

Questa dimenticanza del nome proprio, concerne lo stesso Freud, il quale non si risparmiava niente, lui era abbonato all’inconscio e ci si esponeva volentieri al proprio inconscio.

Racconterò di cosa si tratta. Freud si trovava in viaggio in quella che una volta si chiamava Iugoslavia, nella regione della Bosnia Erzegovina, viaggiava da Ragusa, l’odierna Dubrovnik, a un’altra località che ora mi sfugge. Allora si viaggiava in carrozza e si conversava, come oggi si può fare in treno, anche se oggi l’alta velocità non propizia la conversazione, una volta invece era più facile conversare perché i viaggi in carrozza erano interminabili.

Viaggiando in carrozza Freud si trovava a conversare con un suo compagno di viaggio. Parlando delle usanze dei turchi, che numerosi abitavano la Bosnia, viene fuori questa storiella del padre di famiglia che rassegnato di fronte alla morte, quando non c’era più nulla da fare per un paziente si rivolgeva al medico dicendo: “Her, (attenzione alle parole!), se c’era qualcosa da fare tu l’avresti fatto”. Grande rassegnazione dunque di fronte alla morte. A quel punto a Freud viene in mente un altro episodio, un altro aneddoto che gli era stato raccontato da un suo amico medico insieme con questo: i due racconti erano abbinati nella mente di Freud come due ciliegie, ma al momento di raccontare e abbinare l’altro racconto, e cioè che, di fronte ai disturbi che riguardano la sfera sessuale, loro non sono rassegnati per niente e dicono: “Her, che cosa sarebbe la vita senza quello”, egli si arresta.

Questa seconda parte Freud non la dà, gli rientra, si tappa la bocca, cambia discorso e dice al suo compagno di viaggio: “Ma lei è mai stata a Orvieto a vedere gli affreschi del grande giudizio universale di …”. A Freud, per quanti sforzi faccia, non viene in mente la parola “Signorelli”.

Gli passano in mente dei nomi sostitutivi, Botticelli, Boltraffio, ma non Signorelli. Sono importanti queste parole che vengono in bocca, a Freud, perché? Intanto, la parola Botticelli, contiene una parte di Signorelli, che sarebbe “elli”. Se noi togliamo “elli” a Signorelli, resta “Signor”.

Quello che Lacan ci dice è che ciò che fa problema a Freud, non è “elli” ma “Signor”. Botticelli, Boltraffio sono due parole che iniziano con la sillaba “Bo”, probabilmente la “Bo” di Bosnia, invece nella parola Boltraffio c’è una parte che ricorda qualcosa d’importante, legato nella mente di Freud al suo soggiorno a Trafoi, dove lui si recava in vacanza tutti gli anni.

Anche noi ci siamo stati a Trafoi, per partecipare a delle giornate di studio organizzate dai colleghi torinesi sul tema, indovinate un po’, dell’impotenza sessuale.

Che cosa era successo a Trafoi dove Freud trascorreva le vacanze? Gli era giunta la notizia, poco prima di partire per questo viaggio, che un suo paziente si era tolto la vita a causa dei suoi gravi disturbi sessuali. Come vedete, qui ci sono due elementi importanti che hanno influito perché Freud non desse tutto se stesso.  Cioè non raccontasse il secondo dei due aneddoti, che andavano insieme nella mente di Freud, ma lui uno se lo è rimangiato, perché qui ovviamente quello che è in gioco è la questione della morte e della sessualità legati insieme.

Lacan come spiega questo? Lo spiega dicendo che in quel momento era richiesto a Freud di elaborare una metafora sulla morte e la sessualità, sulla fine, sul momento ultimo, terminale, ma la metafora non è venuta fuori.

Allora, la differenza tra il motto di spirito, che è un’elaborazione in positivo, una metafora compiuta e autenticata dal grande Altro, e il lapsus, la dimenticanza del nome, è che anch’essa è il tentativo di una metafora, ma non riuscito. Quello che ci dice Lacan a questo proposito, è che noi abbiamo da una parte “Signorelli”, la parola dimenticata benché una sua parte, “Signor”, non lo sia, è rimossa, non la troviamo da nessuna parte perché non esisteva prima, e sappiamo che è rimossa perché di quello che viene in mente a Freud in quel momento, gli elementi “Botticelli” e “Boltraffio”, denunciano che di tutti questi significanti ne resta uno intatto, “Signor”, che non compare perché è rimosso, è eliso. Lacan ci dice ancora che “Signor” comincia a girare a vuoto su questo piano del grafo, non c’è possibilità di convalidarlo, l’Altro non può autenticare questo “Signor”.

Tuttavia qualcosa viene in mente a Freud, qualcosa di sostitutivo ma sul piano dell’immaginario. È vero che questa parte qui, questo segmento sul piano basso del grafo che va da “i(a)” a “Je”, è il segmento metonimico, ma è anche vero che è il segmento immaginario, perché tutti questi frammenti metonimici sono anche composti da frammenti di immagini.

Dice Freud in questo saggio, “La dimenticanza del nome proprio”, che lui si stupiva di se stesso, perché mai aveva avuto l’esperienza di un ricordo, come quella volta lì: si ricordava tutto il giudizio universale di Signorelli, se lo vedeva chiaro nella mente, anche la stessa immagine di Signorelli nell’angolo in basso a sinistra dell’affresco, come usavano i pittori a quei tempi di rappresentare se stessi in un angolo del proprio dipinto, aveva la sua immagine chiarissima, predominante, che lo fissava, ma non il nome.

Lacan ci dice che qui era richiesta la metafora che Freud non poté elaborare, una metafora escatologica, cioè, dove è in gioco la fine, di tutto, della sessualità, del mondo, della vita, questa metafora a Freud non gli riesce e c’è una mancanza, però è come se ci fosse un buco dove c’è qualcosa, ma a quel posto lì non viene niente. Qui Lacan ce la mette tutta per darci un’idea di quello che succede in quel momento lì, nella giostra dei significanti, perché è un gioco molto attivo dei significanti in opera in quest’occasione.

Ci vorranno sette/otto anni perché Lacan, a un certo momento ci dica una cosa, molto precisa; perché in questo punto s(A) del grafo, nel luogo del messaggio, doveva arrivare una metafora, un nome, e qui Lacan ci dice che il nome proprio è il messaggio dei messaggi. Lacan si mette ad analizzare il significante “Signor” e la “o” che questo elemento contiene e dice che questa lettera era pure presente nella frammentazione metonimica, “Botticelli”, “Boltraffio”, quindi ciò che è stato rimosso, e ce lo dirà nel seminario “Momenti cruciali per la Psicanalisi” del 1965, ciò che è stato dimenticato è soltanto “Sig”, e riguarda proprio lui, Freud, il proprio nome. Quello che è stato dimenticato non è “Signorelli” né “Signor”, perché la “o” è rimasta, ma il proprio nome, “Sig…” il “Signans signatum di Sigmund Freud”. In quel posto lì che funzione ha questo nome? Nella metafora, che funzione ha? È quella di una sutura, e Lacan la chiamerà una “falsa apparenza di sutura”, che serve a coprire la mancanza a essere del soggetto. È con questo che Freud si trova confrontato al momento della dimenticanza del nome proprio “Signorelli”, con la propria mancanza a essere.

Dobbiamo questa invenzione a Lacan. È vero che Lui preparava le proprie lezioni, si svegliava prestissimo e la sera andava al letto tardi per impostare la propria lezione però, poi, l’invenzione veniva fuori sul momento. La grandezza di Lacan sta in questo, egli costruiva le proprie lezioni ma era un insegnamento orale, nel vero senso del termine, dove lui era assoggettato, lui stesso assoggettato all’inconscio, perché l’invenzione c’era grazie al suo inconscio, evidentemente.

È chiaro che a seguirlo uno un po’ ci si perde, perché Lacan va avanti, poi torna indietro, riprende gli argomenti, li ricostruisce sotto un altro aspetto, ma è questo che è importante e che rende queste letture di un’attualità sbalorditiva. Niente è sistemato, definitivo, perché Lacan odiava, come lo stesso Freud del resto, e dico questo perché so che qui ci sono degli allievi, la costruzione d’un sistema, non voleva assolutamente che il suo insegnamento fosse messo in un sistema fisso, dato una volta per tutte, tant’è vero che ogni anno cambiava prospettiva e mandava in bestia tutti quanti, perché non ci capivano più niente. Dicevano: “Ma com’è?” “L’anno scorso ci sembrava d’aver capito quasi tutto, invece adesso è tutto di nuovo rimesso in discussione”. Era questa la grandezza dell’insegnamento di Jacques Lacan.

Vedete, vi ho fatto questa esposizione, ma tralasciando molto perché sono sette lezioni di una ricchezza che ovviamente non possiamo esaurire qui, però cerco di seguire un filo logico.

Ritorniamo al nostro grafo. Abbiamo detto che questo disegno, è la prima cellula, dove abbiamo l’incontro del bisogno che deve necessariamente passare attraverso la domanda, che, come tale, ovviamente non può che esprimersi nei significanti. Questa catena dei significanti fa sì che il soggetto formula un messaggio, che si trova qui, per essere autenticato tornando dal grande Altro.

Il primo grande Altro ci dice Lacan è la madre ma qualche volta ci dice anche che il grande Altro è il corpo, come luogo in cui s’incarnano i significanti. Se non fosse così, non potremmo spiegare i sintomi isterici, perché questi sono delle scritture sul corpo; che in questo senso è anche luogo dell’Altro, della parola.

Vi racconto una storia. C’è stato un signore che mi ha tormentato per molto tempo, il quale mi chiedeva di scrivere qualche cosa intorno alle storie dei rapporti che si stabiliscono in “rete”. Sono delle cose disastrose, come tutti sappiamo, che io ho potuto esperimentare sia nel corso di qualche cura, sia grazie a episodi, che mi sono stati rapportati in supervisioni. Ho potuto osservare che c’è un totale disastro quando queste persone s’incontrano, allora c’è veramente il collasso. Quello che prima era stato costruito soltanto con scambi verbali, di parole non appoggiate a un corpo, è qui la questione, giacché il luogo della parola è il corpo, crolla miseramente al primo incontro, in cui ciascuno si vede confrontato con il corpo dell’Altro.

Succede, che qualcuno nella “rete” ha costruito chissà che, in un dialogo fittizio, un invio alterno dei messaggi, dove la parola non trova il riscontro dell’altro nell’Alterità del suo corpo, che non può fare da terzo, perché il proprio messaggio possa tornare dall’Altro sotto forma invertita, sicché questo rapporto, che apparentemente è soltanto uno scambio di parola, è puramente e semplicemente un rapporto duale, immaginario. Nel momento in cui, può capitare, queste persone s’incontrano, alla presenza del corpo c’è il collasso, perché il corpo è il luogo della parola, ecco perché Lacan diceva che “Il grande Altro è il corpo”.

Ritornando al nostro disegno, noi possiamo costruire il secondo piano del grafo, partendo proprio dal grande Altro. Lacan lo costruisce grazie al motto di spirito per andare avanti nell’elaborazione del motto di spirito e comincia a parlare della preparazione del grande Altro, dicendo come sia necessario che si crei un momento d’inibizione nel luogo del grande Altro: è questo che mi ha fatto pensare alla presenza del corpo.

Piunti: Cosa s’intende per corpo, l’immagine, l’immaginario, cosa intende quando dice che il grande Altro è il corpo?

Burzotta: Il grande Altro come corpo lo intendo esattamente come luogo della parola.

Belli: Il corpo è tagliato dalla parola, dai significanti cioè, i tagli del corpo sono le parole.

Burzotta: Voglio dire, nei messaggi che passano via etere, queste parole che ci compaiono nello schermo, sono parole che non hanno il supporto del corpo da cui le parole provengono. Spesso il secondo passaggio è lo scambio d’immagini.  So per esperienza di episodi in cui, una bambina molto disturbata parlava di se stessa come se fosse un maschio, inviava foto di maschietti e riusciva a catturare con le sue parole, la fantasia di ragazzine che stavano dall’altra parte.

Questo per dire che è importante il corpo presente come luogo della parola. É qualche cosa che evidentemente va elaborata, forse non c’entra niente con la lezione d’oggi, però è qualcosa che ha bisogno di essere studiata.

Molte cose ho sentito di questo tipo, di signore che si mettono a chattare e si spacciano per ragazzine, certamente ve ne parlo dal punto di vista clinico e sono cose che succedono e questo perché? Perché evidentemente non c’è il supporto del corpo come luogo della parola, dove questa ha il suo habitat naturale. È qualcosa che posso solo accennare, ma deve essere elaborato ed è molto importante, perché se è vero che il corpo è l’immaginario, come Lacan dice più volte nel Seminario RSI (1975), afferma pure a un certo momento che il corpo è il grande Altro, ancora in RSI, sicuramente.

Ritorniamo alla questione della resistenza, necessaria alla sopraelevazione del grafo. È curioso che questa sopraelevazione è suggerita a Lacan come da una resistenza esercitata dal grande Altro, un’insoddisfazione, per un’altra elaborazione del motto di spirito.

Nella costruzione del grande Altro, quando noi ci rivolgiamo all’Altro, quando facciamo una domanda all’Altro, tentiamo di fare questa domanda, nei significanti dell’Altro.

Formulando una domanda, cerchiamo d’implicare quello che possa essere l’oggetto metonimico dell’altro, quello che supponiamo che sia l’oggetto metonimico dell’altro.

È da qui che Lacan parte per costruire la parte superiore del grafo: dal luogo dell’Altro parte una seconda parabola che è intercettata da un’altra catena significante. Credo sia legittimo supporre che questa seconda catena sia di pertinenza all’inconscio, come tutto ciò che questa seconda intersezione va a determinare.

Sul piano sopraelevato del grafo, che qui riproduco nella versione più elaborata, resa da Lacan più avanti nel Seminario V, si possono trovare alcuni punti, che corrispondono a quelli presenti nel registro inferiore.

Così al luogo del messaggio, s(A) sul piano inferiore corrisponde in alto un S (significante) di A barrato, vale a dire che pure l’Altro è assoggettato alla legge del significante, così pure, al posto del grande Altro, tesoro dei significanti in basso, corrisponde in alto un S (Soggetto) barrato punzone D, vale a dire il luogo dei significanti pulsionali, che è anche la formula della pulsione.

 

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Nel piano superiore, si ritrova anche una linea intermedia corrispondente a quella metonimica del piano inferiore, che ai due estremi ha l’algoritmo del fantasma, S (soggetto) barrato punzone a, da una parte e la “d” del desiderio, dall’altra, in corrispondenza del “je” e di “(i)a” sulla linea intermedia del piano inferiore.

Vennemann: Il soggetto acefalo, quello della pulsione, è barrato?

Burzotta: Sì, è barrato. Potremmo anche dire, volendo, che a questo livello il soggetto sia barrato dai significanti pulsionali.

Tuttavia è ancora il motto di spirito che, inizialmente, induce Lacan alla sopraelevazione del grafo, riprendendo pure Freud e posso anche trovare il punto esatto del passo che Lacan sta citando: “ Il piacere provocato dal motto si mostra più chiaramente nella terza persona che nell’autore del motto”. “L’autore ha, di solito, pronunciato il motto, con aria seria e attenta”. C’è come un’insoddisfazione, c’è qualcosa che fa sì che passiamo a un livello più elevato: credo che il grafo sia elevato da Lacan, perché c’è questa insoddisfazione. Citando ancora Freud, Lacan ricorda, che c’è intanto questa necessità di raccontarlo a un altro, quello che lo riceve lo vuole raccontare a un altro.

Vennemann: Beh, c’è quel tantino di preoccupazione di sapere se l’altro lo capisce, se lo fa ridere.

Burzotta: Sì, può sembrare che Lacan sia spinto da questo a fare una sopraelevazione del grafo, ma non è molto chiaro. È vero tuttavia che questa preoccupazione la ritroviamo nel sentito comune, per cui chi fa un motto di spirito crede di aver compiuto un’impresa eroica e chi fa un lapsus, si schernisce e ci mette un velo sopra. Questo accade nella vita di tutti i giorni. Altra cosa è se abbiamo la pretesa d’analizzarlo dal punto di vista analitico.

Drazien: Scusi, non ho seguito.

Burzotta: Dicevamo di chi fa il motto di spirito, nella vita di tutti i giorni, mentre quello che viene fuori dall’analisi che fa Freud è che, chi lo pronuncia, resta molto serio e a questo proposito egli parla di dispendio psichico. Voi sapete che in questo saggio del motto di spirito, Freud ha una visione meccanicistica e parla appunto del dispendio psichico, e dice che il soggetto “ha dovuto fare un tale dispendio psichico per superare l’inibizione e la resistenza, che nel momento in cui lo pronuncia, l’autore resta serio e quello che ride è il terzo che ha colto il motto”. Così lo spiega Freud.

Vennemann: Resta serio per ingannare l’altro, no?

Burzotta: Resta serio perché, in quel momento deve ancora riprendersi dal dispendio psichico che ha fatto per superare le proprie resistenze inconsce, almeno Freud lo spiega così, e mi sembra una buona spiegazione. Ingannare l’altro Johanna, nel momento che tu l’hai fatto, non hai potuto resistere, il motto di spirito è una cosa irresistibile, tu lo fai perché in quel momento sei, in qualche modo, portata a farlo e impieghi tutte le tue forze per superare le resistenze. Tu che hai la bocca spiritosa, lo sai bene che per te è irresistibile. In quel momento non pensi quanto te stessa sei coinvolta nel motto di spirito.

Vennemann: Ma essendo anche analista, ci penso.

Burzotta: Ci pensi dopo, magari in un secondo momento, perché nell’attimo in cui fai una battuta spiritosa, tu sei seria. E allora, non è tanto che vogliamo ingannare l’altro…

Vennemann: Non ingannare l’altro, creare una finzione.

Burzotta: Sì, creare una finzione. Ovviamente la creazione del motto di spirito è una cosa istantanea, simultanea. Il richiamo all’analista può essere qui pertinente, nel senso che l’atto analitico dell’interpretazione è spesso un motto di spirito.

È curioso che Lacan si accinga alla costruzione di questo secondo piano del grafo dopo aver illustrato un altro motto di spirito, che non è tanto un motto di spirito, ma qualche cosa che gli è stato apportato da Raymond Queneau, un matematico, uno scrittore.

Sarebbe la storiella del cavallo, prodotta durante un esame da un candidato. Un giovane si presenta all’esame di maturità e l’esaminatore gli dice: “Mi parli della battaglia di Marengo”. Il candidato si ferma un instante e con aria pensosa dice: “La battaglia di Marengo?”. “Quanti morti, è orribile, quanti feriti”. “È spaventoso!”. L’esaminatore ovviamente non è contento della risposta perché a un esame di maturità non basta questo e gli dice: “Non potrebbe dirmi qualcosa di più particolare di questa battaglia?”. Il candidato riflette un istante e poi risponde: “Un cavallo ritto sulle zampe posteriori che nitrisce”. Ecco com’è illustrata, dall’allievo, tutta la battaglia di Marengo. L’esaminatore è sorpreso e allora gli dice: “Non vorrebbe parlarmi della battaglia di Fontenoy?”. Il candidato risponde: “La battaglia di Fontenoy?”. “Quanti morti, dappertutto, quanti feriti, tanti, è un vero orrore!”. L’esaminatore incuriosito gli chiede: “Ma, scusi, potrebbe darmi qualche indicazione più particolare della battaglia di Fontenoy?” “Eh, dice il candidato, un cavallo ritto sulle zampe posteriori che nitrisce”. Infine l’esaminatore con abile mossa domanda al candidato di parlargli della battaglia di Trafalgar e lui risponde: “Quanti morti, un vero carnaio, quanti feriti, a centinaia!”. “Ma insomma, gli dice l’esaminatore, non mi potrebbe dire qualcosa di più preciso, i particolari di questa battaglia?”. “Un cavallo…”: “Mi scusi, dice l’esaminatore, le devo ricordare che quella di Trafalgar è stata una battaglia navale!”. “Oh, indietro cavallina, (cocotte)!”, dice il candidato. C’è un doppio senso con la parola “cocotte”. La frase finale dell’allievo è il culmine di tutta la storiella, perché tutta la parte detta prima è una preparazione; perché tutti noi non sappiamo da quale parte stare, se da quella del candidato o dell’esaminatore, che è infastidito da questo tipo di comportamento del candidato. È qui che c’è il momento dell’inibizione superata per arrivare al momento culminante.

Drazien: Sì, però non è un motto di spirito, è il prodotto di un’invenzione di questo candidato spiritoso.

Burzotta: In effetti, non è un motto di spirito come gli altri, ma in questo, “indietro cavallina”, è come se lui stesso, l’allievo, galoppasse in quel momento. Certo è un’invenzione di questo candidato spiritoso, lui fa un gesto “Hop”, è lui che galoppa in quel momento in groppa al cavallo, tira le redini e: “Indietro, indietro puttanella!”. In questo senso cavallo, diventa cavallina, “cocotte”. È qui il motto, è qui l’invenzione, in questa parola sostitutiva rispetto a cavallo che era in gioco nelle prime battute. Io non vado matto per questa cosa, e posso capire il suo disappunto per questa costruzione.

Drazien: Luigi, lo conoscevo benissimo, è sulla copertina del seminario, ma piuttosto, dove lo traccerebbe sul grafo, diciamo questa invenzione, o mezzo motto di spirito?

Burzotta: Sul grafo abbiamo finora collocato il motto di spirito a livello del messaggio, però, se noi dobbiamo collocare quest’ultimo, “Indietro puttanella!”, utilizzando la forma più elaborata del grafo, il suo posto è in questa parte superiore del messaggio, allora probabilmente comincia a funzionare di più. Noi abbiamo messo familionarioqui a livello del messaggio. Se mettiamo quest’ultimo motto nel punto corrispondente del piano superiore, già cambia la prospettiva. Perché sappiamo che a questo posto troviamo il significante dell’Altro barrato, dove il messaggio ci lascia a bocca asciutta.

Che cosa vuol dire il significante dell’Altro barrato? Più avanti, Lacan in questo seminario svilupperà molto questa parte, perché, parlando sempre in termini di dialettica, di domanda e desiderio, a un certo momento Lacan ci dice che il modo per andare oltre è quello di cercare il desiderio dell’Altro e dobbiamo spostarci su questo piano superiore per rintracciare il desiderio dell’Altro. Che cosa vuol dire il desiderio dell’altro? Vuol dire che anche l’Altro è barrato, non solo il soggetto, ed io posso accedere, costatare di essere barrato soltanto perché posso cogliere che anche l’Altro è barrato.

Questo è l’insegnamento che ci dà Lacan in questo seminario quando introduce “Il sogno della bella macellaia”. Perché in questo sogno ciò con cui si confronta la bella macellaia, è proprio il desiderio dell’Altro. Lei ha bisogno di avere un desiderio insoddisfatto, perché anche l’amica…

Vennemann: Ma questo lo lasciamo per domani.

Burzotta: Sì, avete ragione. Possiamo fermarci al desiderio dell’Altro barrato.

Bresani: In questo caso dell’esaminatore e dell’allievo lei mette il motto a questo livello superiore.

Burzotta: Sì, perché, da un canto, ho avuto l’impulso di metterlo a questo livello dalla persona che qui mi sta accanto, e anche perché siamo di fronte a qualche cosa di particolare. C’è una grande preparazione per la costruzione dell’Altro e, alla fine, quest’Altro è pure lui barrato e se noi restiamo un po’ a bocca asciutta rispetto a questa battuta finale, è perché il soggetto coglie che il grande Altro è barrato. Questo io posso dirvi.

Drazien: L’Altro è mancante.

Burzotta: Esattamente. Così si potrebbe spiegare questa nostra non completa soddisfazione innanzi al motto di spirito, che, tra l’altro, ci lascia sempre un po’ con la bocca amara, perché anche chi lo pronuncia resta con la bocca amara. Resta serio, l’altro ride; certo che poi c’è il momento della risata, della liberazione come dice Freud, però è una formazione dell’inconscio, che implica il soggetto, non c’è dubbio su questo e voglio illustrarlo, perché è il mio assunto iniziale.

Dicevamo che dietro a Hirsch-Hyacinth c’era lo stesso Heine, sicuramente. Qui bisogna raccontare che il poeta Heine aveva vissuto una giovinezza molto infelice. Freud diceva che ricordava le parole di una sua vecchia zia, che sposandosi era entrata a far parte della famiglia di Heine, la quale raccontò che un giorno, lei bella signora si era trovato come vicino di tavola, in famiglia, un tale che le parve poco attraente e che tutti trattavano con disprezzo: era il giovane Heine, della famiglia dello zio che si chiamava anche lui Salomon. Pensate che, come quello di Hirsch-Hyacinth, il detto Salomon Roschlid, anche questo zio di Heine si chiamava Salomon e lui da giovane era molto scontento perché non era accettato in questa famiglia dello zio. Il poeta avrebbe voluto sposare la figlia di questo Salomon, ma gli è stato impedito, perché era trattato con disprezzo. Lui all’epoca era un poco trascurato nell’abbigliamento, come suo modo di essere, e dunque nessuno gli dava molta importanza.

Ecco da dove origina il lato soggettivo della creazione del motto di spirito. É proprio da questo retroterra che nascono tutti questi personaggi e che gli sono serviti per la costruzione di questo famoso motto di spirito:familionari. Così, nella costruzione, nell’elaborazione di un motto di spirito, è sempre implicato un soggetto.

Però il soggetto è qualcosa d’inafferrabile, si manifesta in un attimo, in un battito, come le pulsazioni dell’inconscio. Non è qualcosa che io posso afferrare, determinare e mettere lì e dire: questo è il soggetto. Il soggetto ci sfugge e Lacan ci dice che si può collocare in tutto il sistema, come del resto anche il grande Altro, lo posso mettere qua e là ma, alla fine, il grande Altro ha lo stesso tipo di realtà, corrispondente a quella del soggetto e del resto, quello che noi possiamo dire a proposito di questo grafo e di tutto ciò che è elaborato sopra, è che non c’è soggetto senza grande Altro, questo lo possiamo dire tranquillamente.

Il soggetto viene fuori proprio dal fatto che la domanda deve passare attraverso i significanti e ciò che, all’origine, è una domanda d’amore, incondizionato, passa alla condizione assoluta del desiderio e diventa inafferrabile, è articolato nelle parole ma non è articolabile con le parole, si trova negli interstizi, negli intervalli, nelle pause, tra le parole, non lo posso afferrare il desiderio.

Ecco, è questo il risultato di questa lunga elaborazione che Lacan fa sulle formazioni dell’inconscio e noi ci troviamo di fronte a qualcosa che non può farci concepire il soggetto come un’unità di sintesi che è propria piuttosto della funzione immaginaria e, al tempo stesso, di misconoscimento che chiamiamo “io”.

Il soggetto, ripeto, è qualche cosa d’inafferrabile, che appare e scompare. Nel momento in cui ho formulato quel motto di spirito davanti alla cassiera del supermercato, non riesco ad afferrarlo, per coglierlo dovrei indugiare un poco sull’analisi personale, perché altrimenti il soggetto è inafferrabile. È una manifestazione dell’inconscio, in quel momento lì abbiamo un battito, una pulsazione che ci rivela il soggetto che poi scompare, ecco è questo.

Lacan non termina d’illustrare questo grafo con questo seminario, perché tutto l’insegnamento dell’anno successivo sul Desiderio è elaborato su questo grafo, quando, per delucidare ciò che in questo seminario chiama “la Spaltung tra le due linee significanti”, introduce la distinzione tra il piano dell’enunciato, per la linea inferiore, e quello dell’enunciazione, per la linea superiore del grafo.

Tuttavia già in questo seminario avremo occasione di situare nel grafo l’articolazione della domanda, dall’incondizionato dell’amore alla condizione assoluta del desiderio, per vedere cosa fa problema nell’ossessivo.

Drazien: Stiamo anticipando. Tornerà su questo piano alto, perché effettivamente si complica.

Burzotta: Sarà per la prossima volta.

 

 

Trascrizione eseguita da Blanca Sofia Bresani