14 Feb Come creare dal nulla – Lettura dell’Etica della psicanalisi di J. Lacan – 26 maggio 2017
26 maggio 2017
Lettura dell’Etica della psicanalisi di J. Lacan
Come creare dal nulla
L. Burzotta
Sapete che vi dico, mi sembra di stare sempre al primo giorno di scuola, nel senso che io mi trovo sotto questa impressione ogni volta che mi immergo in un testo di Jacques Lacan, di cui io seguo l’insegnamento e rispetto al quale devo dire che tutto quello che io ho elaborato intorno alla psicanalisi non ci sarebbe senza la guida della sua dottrina analitica per lo studio dell’Opera di Freud, che, tuttavia, avevo già incontrato e letto fin da quando ero giovanotto, prima di imbattermi nei suoi Scritti e nei suoi Seminari.
Quello di Lacan non è un pensiero sistematico, riducibile a un metodo prescrittivo, visto che abbiamo parlato poco fa di terapia sistemica e di questi pazienti che, come pupazzetti nell’esempio clinico riportato, vengono spostati per la stanza per vedere come farli interagire; mentre era una cosa immediatamente tangibile che la questione centrale di tutto quello che ci veniva apportato sul caso clinico era la madre, in assenza totale del significante paterno. Il padre c’era, ma era il significante paterno che mancava.
Prima di Lacan se ne è accorta Melanie Klein di quanto la madre fosse centrale in quelli che sono i disturbi di un bambino o di una famiglia, e infatti in questo capitolo che noi andremo ad affrontare oggi, che è il IX dell’Etica della psicanalisi, Lacan inizia con uno scritto di Melanie Klein del 1929: Situazioni di angoscia infantile espresse in un opera musicale e nel racconto di un impeto creativo.
È interessante di questo saggio che metta in relazione quelle che sono delle espressioni creative, artistiche musicali, pittoriche, con qualche cosa che ha a che vedere con un campo centrale nell’analisi di Melanie Klein, che è quello del rapporto del bambino con la madre. Ciò che nel rapporto del bambino con la madre è messo in evidenza è proprio questa successione di fantasmi, di aggressioni nei confronti del corpo della madre vissuti poi anche di ritorno come contro aggressioni.
Allora l’opera d’arte riprodurrebbe questa dinamica in un modo sublimato. Nel saggio è illustrato pertanto come si compie la sublimazione secondo Melanie Klein.
Dopo aver parlato di Ravel che ha musicato l’opera di un certo Colette, L’Enfant et les Sortilèges, l’autrice parla non di un suo caso clinico ma commenta l’aneddoto riferito dalla scrittrice Karin Michaelis, con il titolo Lo spazio vuoto, che riguarda una signora che sarebbe andata in analisi proprio con una crisi di depressione melanconica, che aveva l’angoscia come manifestazione centrale del suo malessere.
Nelle sue crisi depressive questa donna lamenta sempre che c’è in lei uno spazio vuoto, che non può mai riempire. Lacan qui ironizza un po’ sui successi dell’analisi così come qui vengono contrabbandati perché pare che grazie alla cura questa donna, che si chiama Ruth Kjar, sia riuscita a sposarsi, salvo a ricadere, dopo il matrimonio, in una nuova crisi.
Come diceva la collega di oggi, che ci ha presentato il suo caso clinico anzi la famiglia clinica, dopo pochi incontri era “tutto risolto”.
Questa donna era dunque ricaduta nella depressione, ma cosa era successo nel frattempo? Durante il matrimonio, nella loro abitazione, una stanza, probabilmente il salotto, era stata completamente riempita dei quadri del cognato cioè il fratello del marito.
Non si sa perché questo pittore aveva riempito la casa del fratello di tutti i suoi quadri, e le pareti ne erano tappezzate. Un bel giorno questo signore ha avuto la ventura di vendere uno di questi quadri, che è stato tirato via dalla parete, e da quel momento è nata di nuovo la crisi della signora.
Voi sapete che quando si tira via un quadro da una parete resta un vuoto, ma è un vuoto segnato. Forse non è un caso, ma è capitato proprio in questa stanza che io abbia riempito questo vuoto segnato con un altro quadro, vedete è proprio lì dove ora c’è il ritratto di Jacques Lacan, che è un ritratto eseguito a matita da Giuseppe Modica. Questo ritratto di Jacques Lacan è stato messo al posto vuoto di un quadro che è stato tolto, ma il quadro che è stato tolto ha lasciato il vuoto e niente lo può riempire. Posso anticiparvi che questo posto vuoto, è proprio ciò che poco fa la Dottoressa Vennemann ha designato con il nome di das Ding.
Questo vuoto la signora, volendo riempirlo, ha preso un pennello e ha cercato di tinteggiare la mancanza ma senza successo. Supponiamo che io trovassi la tintura dello stesso colore della parete e cercassi di riempire questo vuoto, non ci riuscirei perché poi mi verrebbe fuori rimarcato ciò che avrei tentato di coprire, evidenziando piuttosto ciò che non può essere riempito.
Come potete vedere, al posto di un precedente quadro io ho messo sopra un quadro leggermente più piccolo con il ritratto a matita di Jacques Lacan, ma tutto intorno si vede segnato l’alloggiamento del precedente quadro: un bordo più chiaro sullo sfondo che fa da cornice al nuovo quadretto.
Di questo tutti voi avete esperienza nelle vostre case, se togliete un quadro resta un posto vuoto ben segnato. La signora aveva tentato di coprirlo con la stessa tinta della parete, ma non aveva risolto nulla e, non avendo un quadro sostitutivo, allora un bel giorno va in una rivendita di colori e compra tutti i colori necessari per dipingere, e su quel posto vuoto questa signora realizza un dipinto.
A questo punto il cognato, la prima volta che torna a casa del fratello, vede quest’opera realizzata da parte della cognata che, dal canto suo non essendo una pittrice ma una casalinga, temeva il giudizio del cognato pittore. Il quale va su tutte le furie, non perché lei aveva dipinto male, ma perché pensava di essere stato gabbato nel senso che non era possibile secondo lui che un’opera del genere fosse dipinta da una persona inesperta come la cognata. Dice: “sarebbe più facile che voi mi dite che io so eseguire l’opera di Beethoven piuttosto che tu hai fatto quest’opera”.
In questo risultato la Melanie Klein vede la coincidenza topologica della realizzazione di un’opera, in questo caso estemporanea, da parte di una dilettante, con il superamento dell’angoscia: la realizzazione che è dell’ordine della sublimazione coincide topologicamente con il superamento di quello che era la ragione della sua angoscia e della sua depressione.
La dottrina di Melanie Klein proprio questo suggerisce che la sublimazione ha la funzione che abbiamo illustrato.
Lacan giustamente ha qualche dubbio rispetto a questo ma nulla, in linea di principio, impedisce di percorrere questa strada, perché gli sembra che ci sia troppa faciloneria a considerare le cose esposte come risolutive da un punto di vista clinico, e partendo da questo aneddoto rivede le coordinate della sublimazione in rapporto a ciò che lui chiama La Cosa.
Dal punto di vista strutturale quindi Lacan è d’accordo con l’articolazione kleiniana, precisando che si tratta di avere elevato un oggetto alla dignità di una cosa, e ricorda a suffragio un episodio suo personale.
Lacan da giovane amava moltissimo spostarsi in macchina e, andando a trovare gli amici anche in città molto lontane da Parigi, correva con la macchina come un pazzo.
Una volta, alla fine di uno questi viaggi, che lo aveva portato in casa di Jacques Prévert, era rimasto impressionato da una realizzazione singolare che il suo amico aveva montato nel soggiorno di casa sua.
Jacques Prévert non buttava le scatole vuote dei fiammiferi, ricordate i fiammiferi svedesi, quelli che hanno il cassetto che si apre da una parte e dall’altra, ebbene, invece di buttare queste scatole vuote le lasciava socchiuse e le infilava una nell’altra in una lunga sequenza che aveva fatto tutto il giro del camino della casa. Lacan che aveva notato la cosa e gli era piaciuta, aveva considerato che l’amico aveva ottenuto degli effetti simpatici, rivalutando semplicemente un oggetto ormai inutile.
E che cosa aveva fatto Prévert? Aveva elevato l’oggetto alla dignità di una cosa, ma non propriamente della Cosa, di das Ding, ma di una cosa. Giacché la Cosa resta profondamente velata, ci dice Lacan, allora bisogna che avvenga qualcosa di singolare perché si possa parlare di das Ding, come avviene quando in un’opera d’arte si riesce ad elevare l’oggetto alla dignità della Cosa: ciò avviene alla sola condizione che si possa intendere la Cosa come ciò che del reale patisce del significante.
Noi non sappiamo come definire esattamente il reale, perché parlando genericamente del reale bisogna intendersi, altrimenti si resta nel vago. Sicché in merito al reale Lacan ci dice qui che : “dobbiamo ancora delimitarlo, il reale nella sua totalità, tanto il reale che è del soggetto che il reale con il quale egli ha a che fare come esterno a sé”.
Vedete già qui si ha una prima definizione di reale, che va sempre complicandosi con l’andare avanti degli anni, ma una prima indicazione ce l’abbiamo qui, il reale che è del soggetto e il reale con il quale il soggetto ha a che fare, ma poi aggiunge: il reale primordiale. Quindi abbiamo tre elementi: il reale del soggetto, il reale con il quale il soggetto ha a che fare e poi il reale primordiale: vale a dire das Ding, la madre in quanto interdetta.
Ancora non è una definizione anche se una definizione Lacan non la darà mai in modo definitivo, perché il reale alla fine ci dirà che è l’impossibile, ma dice anche che questo reale impossibile è ciò che non va, è ciò che non quadra in ciò con cui il soggetto ha a che fare. È ciò che zoppica.
La Cosa è ciò che di questo reale patisce del significante cioè ciò che di esso subisce l’azione del significante.
A lungo mi sono soffermato su questo schema a doppio incrocio quando parlavamo dei pensieri inconsci che costituiscono l’apparato psichico denominato da Freud Real-Ich, per spiegare come, sia per Freud che per Lacan, l’inconscio è infine da reperire tra percezione e coscienza.
Ricordate ne parlavamo anche l’anno scorso di questo Real-Ich, quando ci siamo occupati di un Seminario di qualche anno dopo rispetto a questo dell’Etica, quello del ’64, l’XI, che tratta dei Quattro concetti fondamentali della psicanalisi, dove le cose sembrano un po’ più semplificate ma in realtà sono solo un po’ più precisate.
Allora ci chiediamo di questo Real-Ich freudiano, che cos’è adesso nell’Etica, nel 1960, e che cosa sarà dopo, nel 1964, parlando degli anni del Seminario di Lacan che corrispondono pressappoco agli anni della sua vita. È nato nel 1901: per questo dico che i suoi anni si possono quasi far coincidere con gli anni del Seminario.
Nel seminario XI definirà l’apparato di cui stiamo discorrendo, come una calotta, ricordate la calotta di cui parlavamo l’anno scorso, costituita da una rete di significanti.
Qui, nell’Etica, l’apparato è costituito da rappresentazioni che flocculano, che fanno coalescenza con elementi significanti. Queste rappresentazioni che flocculano con tratti significanti, formano questa parola composta per noi mostruosa ma di stampo freudiano: Vorstellungs-Repräsentanz.
Io ci ritorno sempre perché per Lacan questo Vorstellungs-Repräsentanz è un elemento cardine del suo insegnamento, non lo abbandona mai, è il rappresentante della rappresentazione.
Poiché ci sono delle rappresentazioni inconsce, dei pensieri inconsci che flocculano con elementi significanti che danno vita a questi Vorstellungs-Repräsentanzen, l’apparato psichico è un sistema costituito dalla coalescenza di elementi significanti con delle rappresentazioni inconsce.
La rimozione principia da questa prima formazione, del Vorstellungs-Repräsentanz che è un significante, insisto e ripeto, un rappresentante della rappresentazione inconscio, perché Lacan ci tiene a precisare che la rimozione concerne un significante, non concerne mai un sentimento.
Lacan si appoggia su Freud e ci dimostra che può sembrare che Freud dica che è la rappresentazione ad essere rimossa, ma in realtà Freud stesso precisa che si tratta di un Vorstellungs-Repräsentanz.
L’anno scorso ci siamo a lungo soffermati su questa rete dell’apparato psichico che tende all’omeostasi, alla stabilizzazione secondo la regola del principio di piacere perché, se ci fosse uno scompenso, avremmo immediatamente una violazione della regola del principio di piacere.
Tra questa rete dei significanti e il campo della Cosa, da cui questi significanti traggono origine e verso cui gli stessi tendono orbitando, Lacan ci dice che non c’è niente, c’è un vuoto, ed è lì che emerge l’oggetto, sempre come un oggetto ritrovato.
Un oggetto ritrovato, non tanto perché lo abbiamo perduto, ma in quanto scopriamo di averlo perduto dal momento che lo abbiamo ritrovato. In realtà non abbiamo perduto un bel niente, se non avessimo questo ritrovamento non avremmo nemmeno l’oggetto perduto. Il fatto di averlo perduto è solo un ipotesi che facciamo a partire dall’oggetto ritrovato.
È vero che è anche cercato l’oggetto, ma cercato per le vie del significante, perché questi significanti dell’apparato psichico pur tendendo a costituire una rete omeostatica, giacché sono regolati dal principio di piacere, non la smettono mai di cercare, creando così come una proiezione al di là di questo campo omeostatico.
Questa proiezione al di là in qualche modo fa fallire questa regola del principio di piacere.
Insomma abbiamo da una parte questa rete di significanti che, regolata dal principio di piacere tende all’omeostasi, che però non ha tregua, perché al suo interno i significanti che la costituiscono, sono sempre alla ricerca di quella cosa da cui essi stessi traggono la loro origine, perché c’è das Ding dall’altro lato, sicché abbiamo come risultato che l’equilibrio narcisistico raggiunto dalla rete non è statico per niente.
Potete così vedere come procede Lacan in tutti questi passaggi di cui io sto cercando di seguire il filo per guidare voi sulla strada di ciò che sta cercando Lacan perché è difficile seguirlo in questa lezione, io mi faccio mediatore perché nello sforzo di orientarmici, cerco di orientare anche voi, perché, lo dico per inciso, Lacan va a tentoni.
Egli precisa che il rapporto dell’uomo con il significante è regolato dal principio di piacere come se avesse di mira un oggetto illusorio, un “logoro”, leurre, che qui hanno tradotto “specchietto per le allodole”, io non sono d’accordo con la traduzione, si tratta propriamente del logoro, quell’arnese che usa il falconiere quando richiama il falcone, si tratta quindi di un oggetto illusorio.
Allora è come se il principio di piacere mettesse sempre davanti a noi questa illusione, e noi andiamo avanti, sospinti da un significante all’altro, sempre con la prospettiva di un inganno.
Tuttavia la ricerca che noi facciamo avviene per le vie del significante, per cui, Lacan ci dice, è una ricerca anti-psichica, nel senso che non è una ricerca come ci diceva oggi la collega, che avviene per le vie delle emozioni, è antipsichica perché avviene per le vie del significante.
Noi siamo alla ricerca di das Ding per le vie del significante, questo è un passaggio centrale, perché sono le sole che possono condurre al di là del principio di piacere.
Per le vie del significante vuol dire che l’uomo ha un rapporto molto importante con la parola, quello che non avveniva nel caso clinico di questa sera per cui il paziente era completamente spiazzato.
E il significante da cosa è costituito? Il significante fondamentalmente è costituito da strutture di opposizione, quindi noi andiamo alla ricerca di questo das Ding per le vie del significante che è costituito da strutture di opposizione, addirittura qui Lacan ci dice che l’uomo in qualche modo plasma il significante e come esempio di oggetto significante plasmato dall’uomo ci porta il vaso.
Il vaso, dall’antichità, è il primo oggetto significante plasmato dall’uomo, in questo Lacan si appoggia anche ad Heidegger, perché il filosofo tedesco dà molta importanza a questo primo significante plasmato che è l’oggetto vaso, di cui dice che è quell’oggetto significante che mette in rapporto il cielo con la terra, la terra da cui si eleva qualcosa e il cielo da cui viene qualcosa: se prendo un vaso, lo elevo e lo rovescio per bere, rappresento la terra da cui prendo qualcosa e il cielo da cui proviene qualcosa, questo è Heidegger.
Noi evidenziamo soprattutto nel vaso, come significante creato dall’uomo, questa opposizione di vuoto e di pieno che fa sì che i due elementi dell’opposizione siano equivalenti, il pieno equivale, infine, al vuoto.
Qui Lacan ricorda un’epoca in cui lui aveva a lungo parlato, in un certo congresso di Royaumont del vaso di mostarda, lasciando tutti un po’ a bocca asciutta dicendo che alla fine il vaso di mostarda, considerato nella sequenza di vasi su uno scaffale dove ognuno può prendere il posto lasciato vuoto dall’altro, è un vaso vuoto, sicché pieno e vuoto sono equivalenti.
Dott.ssa Vennemann: ma il vaso si crea intorno ad un vuoto no?
Dott. Burzotta: e infatti ci stiamo arrivando Johanna.
Lacan si ricorda questo momento della sua carriera in cui aveva proposto questi vasi di mostarda e ricorda di aver detto “non disdegnerei dal pensare che possiamo considerare Bornibus (in Francia è una marca importante di mostarda) come un creatore” è una battuta di Lacan che fa proprio per introdurre il concetto di creazione e la mitologia creazionista.
Qui Lacan tira in ballo i predicatori, lui aveva esperienza dei predicatori perché era stato educato in un collegio di religiosi, e ci ricorda che questi predicatori, nella mitologia creazionista, avevano preso questo vaso come esempio della creazione attorno al vuoto.
Lacan ricorda che questi predicatori, introducendo il tema della creazione, parlano del vaso che stride addirittura tra le mani del creatore, che soffre al momento della creazione; in fondo egli si serve, nel suo discorso, dei predicatori per introdurre un interrogativo centrale dell’uomo, il problema centrale dell’etica: se è una potenza ragionevole, se Dio che ha creato il mondo è una potenza ragionevole, come mai allora, primo, qualunque cosa facciamo, secondo, qualunque cosa non facciamo, il mondo va così male?
Qui però attenzione al passaggio seguente: “quello che sfugge a questi predicatori nell’esempio della mitologia creazionista o piuttosto ciò che tengono nascosto è che il vaso è fatto da una materia” può essere più o meno fine, la creta, ma è sempre una materia, e qui rientriamo nella filosofia del pensiero Aristotelico.
Aristotele dice che niente è creato dal niente, la materia si trasforma continuamente e l’origine del male sta proprio in questa trasformazione continua della materia.
Torneremo più avanti sulla questione del male, per il momento vediamo che Lacan pur non sposando il pensiero di Aristotele, ci dice che è vero quello che lui ci dice che tutto avviene attraverso una trasformazione della materia, però quello che sfugge ad Aristotele è di rimanere così invischiato in un’immagine del mondo che non gli ha consentito di uscire dal recinto della volta celeste.
Cosa vuol dire questo? Voi sapete che Aristotele ha tentato di staccarsi dal pensiero platonico ma non c’è mai riuscito perché alla fine la sua è una filosofia finalistica, perché nella sua concezione la volta celeste è il motore immobile cioè il sommo bene da cui tutto principia e finisce: è la stessa concezione della Divina Commedia che è il calco di quella aristotelica.
Se vedete, il mondo così com’è disegnato da Dante Alighieri con questi cieli, queste sfere che ruotano una dentro l’altra, delimitate dalla volta celeste che è il motore immobile, è Aristotelico come concezione, Dante l’ha preso da Aristotele.
Quindi c’è in Aristotele questo finalismo, che non gli ha permesso, anche se Lacan ammette che non c’è uno spirito filosofico più potente di Aristotele nella storia, questa finalità che non gli ha permesso di perforare la volta celeste.
È possibile invece liberarsi della volta celeste con la creazione ex nihilo, la creazione dal nulla.
Vedo che lei, che ha un’esperienza pratica della creazione del vaso, è perplessa sul fatto che questo si crei introducendo un niente, un nulla nel reale, magari se ci riflette un po’, quando lei ci inserisce la mano socchiusa a pugno nella creta, inserisce questo niente, è lei che glielo introduce, crea un vuoto all’interno e fa sì che questo vaso sia plasmato ex nihilo, dal nulla.
Questa mitologia creazionista è quella che ha permesso la scienza, allora Lacan qui ricorda di avere stupito una volta qualcuno della razza dei Rothschild, con una sua dichiarazione. È interessante che Lacan qui evochi ancora una volta questa famiglia, dicendo che una volta ha parlato a Parigi con qualcuno della razza dei banchieri, in verità non fa il nome di Rothschild, dice “un discendente di quei banchieri reali che accolsero più di qualche secolo fa Heine a Parigi” e cioè proprio quel poeta lì, l’autore del motto di spirito fa-milionario, su cui si è a lungo soffermato nel Seminario Le formazioni dell’inconscio.
Vedete come Lacan ritorna nel suo discorso, marciando sul filo dei significanti, a qualcosa che ha già elaborato : se lui cita questo personaggio senza nominarlo, lo fa per evocarci ellitticamente come l’inconscio fa questo lavoro di creare dal nulla, per esempio con una scrittura, Familionari, senza ripeterci tutto l’aneddoto raccontato da Heine: il poeta può creare dal nulla perché ha un inconscio.
Così Lacan senza darcelo a vedere, perché ci dice soltanto “uno degli eredi che ospitarono Heine a Parigi”, intendeva dire Rothschild senza nominarlo e tacendo il suo nome tace anche tutto il seguito dell’aneddoto Familionari, che noi non possiamo non evocare.
Allora parlando con uno di questa famiglia, egli lo ha lasciato a bocca aperta perché gli ha detto che la scienza moderna, voglio dire quella nata da Galileo, aveva potuto svilupparsi soltanto dall’ideologia biblica giudaica perché questa ammetteva la creazione ex nihilo.
Senza la creazione ex nihilo non ci sarebbe scienza perché la scienza intuitiva quella sperimentale non va da nessuna parte, se non diamo vita al significante; per questo lui ha parlato dell’uomo che plasma il significante, perché soltanto plasmando i significanti è possibile quella scienza che è arrivata fino ai giorni nostri, che ha permesso di perforare la volta celeste.
Non esiste più la volta celeste come motore immobile del mondo umano. Vedete come sembri che Lacan cambi discorso ma il discorso è sempre quello che guida tutto il Seminario, per questo io poco fa dicevo che è una questione di struttura il fatto che il soggetto nella sublimazione dell’opera d’arte crei elevando l’oggetto alla dignità della Cosa.
Considerato che Lacan affronterà nel capitolo successivo l’amor cortese e citerà alcuni studiosi, io qui non posso non dirvi una cosa che ho personalmente rilevato. Chi si occupa dell’amor cortese in Italia sono i filologi ve lo dico subito è la filologia romanza. La filologia romanza, in Italia almeno, sostiene questo, che i poeti romanzi hanno cantato la donna elevando la lingua popolare alla dignità della lingua letteraria.
I poeti della Scuola poetica siciliana, alla Corte di Federico II, hanno usato il dialetto siciliano, ma se voi andate a leggere le loro composizioni ritrovate sì il dialetto siciliano dell’epoca, ma elevato alla dignità di lingua letteraria con il raffronto ad una lingua colta che era il latino.
Erano tutti quanti uomini colti alla corte di questo imperatore illuminato, non erano gente del popolo, erano protonotari, ministri del re, ecco perché hanno potuto fare questa operazione di elevare la lingua popolare alla dignità della lingua letteraria.
Come la sublimazione, secondo Lacan, eleva l’oggetto alla dignità della Cosa, è perlomeno curioso che, secondo i filologi romanzi, la creazione dei Poeti Siciliani sublimi elevando il dialetto alla dignità di lingua letteraria; ma l’analogia diventa più chiara se si considera che sia l’oggetto donna che la lingua vengono elevati, perché entrambi sono “esseri di significante”.
Qui entriamo in un’altra questione importante, la questione dell’opera, ovviamente questo vaso creato dall’uomo è un’opera che in qualche modo ha una forma che ci ricorda das Ding.
Ora rispetto all’opera, visto che qui entriamo nel tema che è stato introdotto oggi nel primo pomeriggio quando ancora eravamo nella nobiltà della teoria clinica, devo dire che poi c’è stata una semplificazione e un abbassamento della tensione dottrinale, passando a un modo riduttivo dell’interpretazione terapeutica, rispetto alla complessità clinica della nostra posizione, che mette in primo piano il significante come elemento cardine, per affrontare ciò che è la cosa più importante e cioè il disagio dell’uomo in rapporto alle sue formazioni inconsce.
Noi affrontiamo il disagio dell’uomo con il significante, è il nostro assunto. Affrontiamo il disagio facendo in modo che avvenga il soggetto, facendo in modo che ci sia il soggetto. Il soggetto nasce grazie alla fenditura del significante, proprio come significante eliso, come soggetto cioè che ha un rapporto privilegiato con l’inconscio.
Riprendendo il filo del mio discorso, con il tema dell’opera, entriamo nella questione della mitologia catara, dell’eresia catara. Lacan cita uno scrittore, Denis De Rougemont che nel suo libro, L’amore e l’occidente, mette in relazione, l’epoca in cui sorge l’Amor cortese e qualche cosa che è contemporaneo e cioè il sorgere dell’ideologia catara nella Francia meridionale.
È una storia molto triste perché ci sono state delle guerre di religione, delle crociate contro tutti i principi della Francia meridionale, gli Albigesi, che sostenevano questi Catari e che finirono per essere completamente debellati. Avevano il torto di reggere principati troppo ricchi e fiorenti.
I Catari erano dei puri, “cataros”, loro credevano che nel momento della creazione si era intromesso un demiurgo che aveva portato con la generazione la putrefazione e la corruzione, quindi era meglio non fare nulla, non riprodursi e infatti cercavano di astenersi anche dai rapporti sessuali. Erano un po’ estremisti, i Catari, ma era brava gente, non certo da perseguitare e da sterminare come è stato fatto, perché è scomparsa qualsiasi traccia di loro ad opera dei sostenitori della religione cattolica, che non ci andavano alla leggera quando erano spinti dalla sete della conquista.
Quindi la materia, secondo i Catari, alberga il male, siamo nella stessa prospettiva aristotelica della trasformazione, la trasformazione della materia in un’altra materia che genera se stessa, ma aggiungevano che qui nella materia era il luogo del male.
Siamo dunque alla questione del male: il male intanto alberga nelle opere, come voi sapete Lutero aveva condannato severamente la religione cattolica del suo tempo perché predicava che facendo delle buone opere si guadagnava il paradiso, Lutero esclamava irritato: “Ma quali opere, se nelle opere c’è il male”? Egli ha condannato la vendita delle indulgenze praticata nel mondo cristiano, che effettivamente era diventato un grande commercio all’epoca.
Quindi il male è nella prospettiva aristotelica secondo i catari, il male è nelle opere secondo Lutero, ma il male, aggiunge Lacan, può essere nella Cosa in das Ding perché l’uomo crea, mantiene, nella creazione di das Ding la presenza dell’umano. Cioè è la presenza dell’umano ha costituire il male nella Cosa. Ma cos’è il male?
La distruzione forse?
Qui io non mi posso esimere, è il mio modo di leggere Lacan, di citare un Seminario in cui egli si occupa del primato del simbolico, il Seminario II, che voi avete studiato l’anno scorso che si conclude in un modo sorprendente. Proprio nelle ultime righe, c’è una frase, che sfugge alla maggior parte dei lettori, che dice esattamente che la pulsione di morte è solo la maschera dell’ordine simbolico. Precisamente lì Lacan non parla di pulsione di morte ma di istinto di morte.
Freud dice questo nell’Al di là del principio di piacere, perché è di questo che stiamo parlando, proprio perché das Ding ci spinge nell’al di là del principio di piacere, ricordate poco fa la rete di significanti, l’omeostasi e la tendenza verso la Cosa, das Ding, che è al di là del principio di piacere. Allora in questo Al di là del principio di piacere Freud, opponendo Eros a Thanatos, considera che la pulsione di morte è muta, silente, mentre la pulsione di vita è chiassosa, Lacan, citandolo, ci dice che se per Freud “l’istinto di morte” è muto, vuol dire che esso è la maschera dell’ordine simbolico non ancora realizzato, che sta lì in attesa, in procinto di venire alla luce, per essere realizzato: è in questa insistenza del simbolico ad essere realizzato che l’istinto di morte diviene pulsione di morte, perché la pulsione non è concepibile al di fuori della catena significante.
È importante questo richiamo perché collima con quello che abbiamo detto fino ad ora, che la ricerca di das Ding è fatta per le vie del significante, che conducono a qualcosa che può essere creato soltanto ex nihilo, perché l’idea di creazione, si fonda sulla volontà di distruzione.
Più volte Lacan ha citato la Ville di Schopenhauer, per precisare che la buona e la cattiva volontà di cui ci occupiamo nella pratica analitica non coincide con quella del mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, precisando che noi siamo alimentati da una volontà che è anche cattiva volontà, quindi siamo al di là del principio di piacere alla ricerca di questo das Ding che contiene in sé anche il male perché contiene l’umano.
Qui io dovrei attaccare con la Minne di cui ha parlato oggi pomeriggio Johanna Vennemann, ricordandoci appunto quanto questo oggetto femminile, alla fine dell’XI secolo quando appare l’articolazione di questa morale, fosse ambiguo ed enigmatico, un oggetto tutto sommato cattivo. Perché era un oggetto cattivo? Perché era un oggetto elevato alla dignità di das Ding, è qui il fatto di struttura che io volevo richiamare e che dobbiamo riprendere, per questo io ti ho fermato Johanna, perché dobbiamo riprenderlo a partire dalla nozione di struttura.
Ecco perché l’idea di creazione e la nascita di questa singolare esperienza che ha cambiato il mondo: non è che ci siamo liberati dell’Amor cortese, è rimasto, è qualcosa che ha a che fare con la struttura dell’uomo.
L’idea di creazione, si fonda sulla volontà di distruzione.
Ritornando al mito della creazione, la cosa può sembrare un salto qui, a conclusione del mio discorso, ma non lo è, perché noi abbiamo detto esattamente che la Cosa, das Ding, è quella che orienta le pulsioni, non è un oggetto qualsiasi, das Ding, polarizza le pulsioni e allora, ci dice Lacan alludendo a Freud, che la pulsione, il Triebe, non si limita ad un nozione psicologica, ma è una nozione ontologica e cioè di struttura.
Ricordando ancora una volta la lezione in cui mi sono occupato del Real-Ich che, dicevamo, tende all’omeostasi, precisiamo che questo sistema resta caratterizzato da stabilità omeostatica finché non c’è la pulsione che va a cogliere elementi di questo sistema.
Quindi la pulsione è il punto di aggancio preciso con il quale Lacan conclude questa lezione, che resta un punto di rifermento fecondo per ciò che sarà articolato nelle lezioni successive.
Trascrizione
Valentina Bellini