14 Nov Evento “Caso Clinico 2021” – Intervento di Luigi Burzotta
Introduzione
Luigi Burzotta
Sono Luigi Burzotta, direttore del Laboratorio freudiano per la formazione degli psicoterapeuti. L’aggettivo freudiano nella denominazione del nostro Istituto è caratterizzante perché sta a significare la sua vocazione psicanalitica.
L’inconscient est structuré comme un langage… au milieu de quoi est apparu son écrit.
“L’inconscio è strutturato come un linguaggio… in mezzo al quale è apparso il suo scritto”.
Voglio iniziare con questo aforisma di Jacques Lacan, di cui si cita solitamente il primo troncone, nell’intento di illustrarlo con la seconda parte della frase, che di solito è tralasciata.
La psicanalisi è un’arte liberale che si esercita con un dispositivo dove per principio si presume di dire il vero, trasgredendo la regola della comune decenza che ha di mira il rispetto dell’altro a noi più prossimo.
Una volta aperto questo solco del dire vero, colui che mette in atto questo esercizio incondizionato della parola si accorge che gran parte della verità gli è preclusa e inaccessibile, perché riguarda un sapere che lo concerne, relativo cioè a lui stesso che dice, ma che resta fuori dalla sua portata. Nessuno può dire la verità.
La parola tuttavia permette di operare in un campo che di solito è negletto, quello freudiano del desiderio, dove ciò che è impossibile a dire si manifesta, all’insaputa, nella forma di una speciale scrittura, che è la scrittura cifrata dell’inconscio.
Ciò di cui tutti abbiamo un’esperienza diretta, come i lapsus, i motti di spirito, il testo enigmatico dei sogni… sono manifestazioni dell’inconscio, alla cui formazione presiede uno scriba bizzarro che si ostina, con il gioco combinatorio della lettera, a mettere abilmente in cifra dei testi bizzarri mettendoci, talvolta, di fronte a quel compromesso penoso che è il godimento del sintomo.
La scienza dell’inconscio è regolata da leggi che non rispondono alla logica aristotelica del terzo escluso ma a quella caratterizzata da una sovversione del senso: una significazione enigmatica aperta alla creatività.
Soltanto la pratica psicanalitica permette alla persona analizzante di cogliere quei momenti privilegiati in cui il suo discorso intenzionale è inaspettatamente superato dal controsenso del suo stesso dire, dove però sono all’opera frammenti di quel sapere ch’egli non sa di avere, che prendono corpo nella materia del linguaggio: elementi, lettere alla deriva che la presenza dello psicanalista permette di cifrare per l’invenzione di un sapere nuovo sul proprio desiderio, questa volta legittimato dall’atto analitico.
Questo esercizio della lettera nella pratica psicanalitica, non è difforme da quello che, altrove, negli altri campi che hanno a che fare con il reale, è alla base dell’invenzione, come avviene nei momenti fecondi della ricerca scientifica o nel magistero dell’arte.
Nel lavoro analitico questa preferenza accordata all’esercizio della lettera nel gioco dei significanti, può dare un poco di respiro e alleviare la sofferenza dei sintomi che parassitano il godimento, perché favorisce quella relazione transferale che permette al soggetto di confrontarsi con il suo fantasma personale; relazione che per principio è troncata da ogni discorso che misconosca il reale dell’inconscio.
Questo avviene ogni volta che si pretende guarire dai sintomi facendo astrazione da ciò che li determina, l’inconscio, che è così fatto oggetto di un aperto disconoscimento.
Questa presunzione, curiosamente, va oggi contro quel sentimento vago ma generalmente diffuso, dove si avverte una comune accettazione della presenza dell’inconscio, come qualcosa d’imponderabile ma reale che, in confuso, è ritenuto condizionare la vita di ognuno, seppure il più delle volte si avverta anche, in quel sentimento, un non volerne sapere.
L’assunto etico della nostra pratica è di volerne sapere.
Questo voler sapere è la molla della psicanalisi che trae il suo vigore dal reale dell’inconscio, che determina certo i sintomi e tutto il nostro disagio, ma che, nel corso della cura fondata sulla parola, continua a inviarci quei messaggi cifrati che, grazie al lavoro esercitato sulla materialità della lettera, possono prendere nuova forma nell’invenzione di uno scritto inedito, la cui cifra di sapere, al di fuori dell’attenta e paziente elaborazione psicanalitica del discorso, sfuggirebbe ad ogni comprensione.
Solo nella prassi analitica è possibile la conciliazione del sintomo con il sapere inconscio in una convivenza consapevole aperta alla creatività.
Caso clinico
Giampiero Belli
Ordine degli psicologi.
Una delle possibili conseguenze psicologiche degli ammalati di Covid.
Sono Giampiero Belli psicologo e psicoterapeuta formatomi presso l’Associazione psicanalitica Cosa Freudiana, una istituzione che nel tempo ha posto in essere una scuola di specializzazione riconosciuta dal MIUR, denominata “Laboratorio freudiano per la formazione degli psicoterapeuti”. Attualmente presto servizio in un Consultorio pubblico dove svolgo la mia attività di psicoterapeuta. Nel mese di giugno 2020 era venuta a consultarmi una paziente reduce da un ricovero presso un ospedale in terapia intensiva dove aveva vissuto un’esperienza drammatica per via del Covid.
Questa paziente, che ha 35 anni, riferisce che la sua vita da quando è tornata dal ricovero nel reparto di terapia intensiva, non è più stata la stessa: ha paura di non riuscire a respirare bene e lamenta che lei, accanita fumatrice, non riesce più ad accendersi una sigaretta, perché teme che il fumo potrebbe portare danni ai polmoni e quindi obbligarla ad essere di nuovo ricoverata in terapia intensiva.
L’altra questione che l’attanaglia è il fatto di essere costretta a dire alle persone che la circondano di essersi ammalata di Covid, come se questa malattia avesse impresso su di lei un marchio indelebile.
In effetti l’evento del ricovero ha costituito per lei un crinale nel corso della sua vita, che separa il tempo in cui tutto si accomodava secondo un certo equilibrio e quello attuale in cui il principio che a sua insaputa regolava quell’equilibrio è saltato.
Lei narra che durante il ricovero vedeva letteralmente la gente morire intorno a sé, perché avrebbe assistito al decesso di alcuni pazienti che non avevano superato la crisi respiratoria dovuta alla malattia. Questa esperienza l’avrebbe messa in rapporto con la fine, anche con la propria fine, facendola cadere in uno stato di depressione, a causa anche di una serie di fatti che ne sono conseguiti, tra i quali l’incomprensione del suo compagno che, non avendo nessun riguardo verso di lei e l’esperienza appena vissuta, si è dimostrato insensibile all’esperienza negativa della sua compagna.
Di fatto la conseguenza di questo lungo ricovero in rianimazione e della quarantena cui è stata obbligata, è stata la perdita del lavoro. Il contratto come segretaria doveva essere rinnovato, ma non le è stato più concesso; per di più il compagno subito dopo l’ha lasciata.
La donna accudiva il figlio di 10 anni che, per non restare in contatto con la madre, al momento del ricovero è stato costretto ad a andare a vivere dal padre, uomo da cui si era separata un paio di anni prima.
In particolare, il rapporto con questo figlio era stato caratterizzato dall’abitudine a dormire nel letto con la madre, che aveva contratta fin da bambino e si era in lui radicata, secondo lei, per l’incapacità di rinunciare a sentire il calore del corpo materno. In verità da questo contatto era la donna che traeva conforto, tanto che non avendo più il proprio figlio accanto, nel letto d’ospedale, le risultava impossibile dormire.
La paziente, figlia di genitori separati, aveva scoperto in età preadolescenziale di essere stata adottata tramite adozione estera, all’età di 4 anni.
Questa informazione l’avrebbe acquisita all’atto della separazione dei suoi genitori adottivi, al compimento dei 12 anni, leggendo delle carte predisposte da parte degli avvocati matrimonialisti che lei aveva scovato dentro casa.
Fino a quell’età lei sentiva l’esigenza di dormire nel letto matrimoniale, che la madre già occupava da sola perché in rotta con il coniuge. Per addormentarsi, lei aveva il bisogno di sentire sul suo corpo il calore del corpo della madre, perché voleva colmare fisicamente il vuoto di un’altra mancanza: l’attenzione del padre.
Il padre si era rivelato infine scontento dell’adozione e non aveva mai dimostrato un interesse verso questa figlia adottiva.
La ragazza dal canto suo sentiva questa freddezza del padre e portava dentro casa tutti i gatti randagi che incontrava, perché si identificava con il loro stato di abbandono, scatenando le ire di entrambi i genitori.
La passione per questi animali sofferenti e abbandonati ha continuato a coltivarla anche in età adulta, svolgendo attività di volontariato presso un canile, dove c’erano cani da dare in affidamento e in adozione.
Quest’opera di volontariato rappresenta un tratto significativo per la paziente tanto da averlo coltivato anche successivamente al proprio matrimonio e dopo la nascita del figlio. Questa attività sarebbe stata la causa della separazione dal marito che l’aveva lasciata in quanto si lamentava di sentirsi trascurato.
Al ritorno a casa dal ricovero, ritrovatasi sola in casa, ha cominciato ad avere una singolare forma allucinatoria: lei vedeva lo specchio dell’armadio di casa divenire una cascata d’acqua, che gli faceva percepire la propria immagine riflessa in modo alterato e confuso.
Questa perturbazione nella quale l’immagine del proprio corpo era sentita estranea, era in lei una regressione a un’epoca antecedente allo Stadio dello specchio. Si tratta di un’epoca formativa teorizzata da Jacques Lacan, che per il piccolo d’uomo va dai sei ai diciotto mesi, quando la percezione che il bambino, ancora prematuro, ha del proprio corpo è frammentaria, fatta cioè di tanti pezzetti quanti sono gli impulsi che gli arrivano dal proprio corpo; sicché l’immagine allo specchio esercita una funzione ortopedica e unificante, grazie all’intervento della funzione simbolica, svolta in quel preciso momento dalla persona che si occupa e sostiene il bambino con l’esercizio attivo della parola.
Se l’attraversamento di questo stadio avviene in modo incerto e labile, di conseguenza può essere precaria la maturazione anticipata che a quell’epoca si raggiunge. Questo può spiegare perché la paziente non riusciva più a dormire la notte ed ha cominciato a coltivare dei pensieri suicidari.
La perdita del lavoro e la sospensione dell’attività di volontariato, l’avrebbero portata verso uno stato d’umore melanconico che era causato dal venir meno di qualcosa che in lei aveva esercitato la funzione di “supplenza”.
Si tratta di una formazione che aveva sostituito in lei la funzione simbolica che normalmente esercita il padre in un soggetto; funzione di “supplenza” che può garantire dall’insorgere di una psicosi, anche in forma depressiva.
Infatti in una struttura come quella della nostra paziente, dove la funzione simbolica era in difetto, invece del solito lavoro di elaborazione del lutto si era messo in opera un lavoro di rammendo psicologico nel punto di vuoto causato dall’assenza, attraverso pratiche elettive, come quelle attività di volontariato nell’accudimento di animali domestici di cui abbiamo già detto.
Nel corso del trattamento, dove grazie all’ascolto psicanalitico può avvenire una ricostruzione del passato nel presente, questa giovane donna ha avuto la possibilità di elaborare con le sue parole, di rielaborare e mettere ordine nella propria storia.
Il lavoro del transfert le ha permesso di rivivere nella terapia il processo di simbolizzazione della propria mancanza che finalmente gli rivelava l’origine e la natura del suo sentimento abbandonico, al quale aveva cercato di sopperire con la cura degli animali abbandonati; una dedizione che aveva costituito per lei quella funzione di “supplenza” alla carenza della funzione paterna e sulla quale aveva potuto validamente appoggiare le proprie capacità lavorative e le proprie emozioni nei confronti del compagno e del figlio.
Pertanto, dopo sei mesi di incontri che prevedevano una seduta settimanale, la donna, avendo ricostruito e assunto un profilo ragionato della propria storia, ha nuovamente spostato i propri investimenti pulsionali verso l’esterno, tanto da riuscire a trovare lavoro come cassiera in un supermercato e a ristabilire un rapporto con il figlio, accettando l’idea che questo potesse rimanere più tempo con il padre, anche una volta tornato a casa dalla madre.